sabato 26 luglio 2014

I prodotti tipici del Canavese


L'appetitosa gastronomia locale conserva, per la gioia dei sensi dei buongustai, una nitida impronta artigianale: si esprime negli alpeggi dove i casari fabbricano gustose tome così come nelle cantine dove fermenta buon vino, nelle pasticcerie storiche e nel calore dei forni in cui nascono i lunghi grissini pazientemente stirati a mano così come nella (limitata) produzione d'amari e liquori.
Immaginate un tegame in cotto, appoggiato sul fuoco lento della stufa a legna, nel quale cuociono i prodotti dell'orto uniti alle erbe selvatiche raccolte durante una passeggiata sui monti canavesani; questa è l'immagine migliore per descrivere la cucina della zona, fatta di antichi sapori e storiche ricette che prevedono l'uso esclusivo di prodotti tipici locali.
La tradizione gastronomica di Canavese e Valli di Lanzo è solidissima, tanto che alcuni piatti inclusi nei menu dei ristoranti più noti sono gli stessi che venivano serviti alle tavole dei nostri nonni e oggi, proprio come allora, conservano tutto il sapore di una volta. Quella che viene definita cucina povera è in realtà ricca di ingredienti genuini.
I pasticceri del Canavese, sono veri e propri artisti, depositari di segreti che si rifanno ad antichissime tradizioni locali. Da assaggiare i martin sec, piccole pere cotte con vino e zucchero, la Torta '900, i Canavesani al rhum e gli Eporediesi al cacao. Ma ci sono anche i croccanti torcetti di Agliè, Andrate e Lanzo, le paste 'd rnelia a base di farina di mais, gli amaretti morbidi di Castellamonte e i Grappini di Chiaverano. E poi i canestrelli al gusto di vaniglia, cacao, nocciola, arancia, caffè, menta, cocco, pistacchio e i Biscotti della Duchessa al cacao, tipici di San Giorgio. Come tralasciare, infine, i nocciolini di Chivasso, nati all'inizio dell'Ottocento dal connubio di nocciole Piemonte, zucchero e albume o il Pan douss 'd Malgrà? Secondo la leggenda, quest'ultime era il dolce preferito dal signore di San Martino, proprietario del Castello Malgrà di Rivarolo intorno agli inizi del '500: il dolce preparato dai suoi cuochi richiedeva ben 48 ore di lavorazione e 24 di lievitazione naturale. Oggi le pasticcerie locali impiegano molto meno tempo a prepararlo e, in più, lo offrono in diverse varianti come il pan semplice, il pan rustico, il pan ricco.
I vini del Canavese hanno varcato ormai da tempo i confini regionali, facendosi conoscere e apprezzare in tutta Italia e anche all'estero. Sono prodotti da cantine sociali, che operano in regime di cooperative e da aziende private modernamente attrezzate e seguite da esperti per poter garantire l'utilizzo delle migliori tecniche di vinificazione. I vini più noti sono l'Erbaluce e il Carema, rispettivamente bianco e rosso.

L’Azienda Agricola Vitivinicola Orsolani



( Via Michele Chiesa, 12 San Giorgio Canavese Informazioni: Tel. 0124 32386),
L'azienda vanta una storia che inizia alla fine del secolo scorso, quando Giovanni Orsolani e la moglie Domenica tornano dall’America richiamati dalla nostalgia per la propria terra; così, nel 1894, nonna “Chinota” apre a San Giorgio Canavese la “Locanda Aurora” e nonno Giovanni si dedica con successo alla vigna e alla vinificazione. Da allora, attraverso quattro generazioni, la conduzione dell’azienda è sempre stata curata dalla famiglia Orsolani: attualmente vinifica esclusivamente Erbaluce proveniente da circa 15 ettari di vigna posizionati nelle migliori zone collinari del Canavese, con una personale interpretazione di questo vitigno. La produzione annua è di circa 100.000 bottiglie; le etichette sono: “la Rustia” Erbaluce di Caluso D.O.C., “Vignot” S. Antonio Erbaluce di Caluso D.O.C., “Sulè” Caluso Passito D.O.C., “Cuveè Storica” Caluso Spumante metodo Classico D.O.C..

Il Molino Roccati a Candia Canavese


Pietro Roccati, titolare del Molino di famiglia in Candia Canavese,ha ripristinato da quattro anni la secolare macinazione a pietra, che mantiene tutti i sali minerali e le proteine del mais, affiancandola a quella più moderna a rullo.Da qui parte anche la riscoperta delle antiche qualità di mais, una sfida difficile, fatta di piccoli numeri e dalla passione di pochi agricoltori.

I vecchi mestieri in Piemonte


All’artigiano Rossa Michele detto "Cicles", stagnino, venne l’idea di riunire, per una dimostrazione pubblica tutti coloro che esercitavano o avevano esercitato mestieri artigianali, la maggior parte dei quali non essendo più redditizi erano stati abbandonati.
Così, il 24 settembre 1986, dopo aver avuto il consenso di colleghi lattai, filatrici, cestinai, materassai, etc... con un gruppo iniziale di sei persone, ha fatto la prima dimostrazione a Rivalta Torinese, ciascuno esercitando in pubblico il proprio mestiere.
Il richiamo di pubblico, le espressioni di stupore e consenso furono tali che gli aderenti all’Associazione aumentarono di anno in anno fino agli attuali diciotto elementi.
L’accoglienza e l’approvazione che le dimostrazioni riscuotevano fecero si che venissero richieste da molti comuni, dapprima solo in Piemonte e poi anche in altre regioni d’Italia: Liguria, Lombardia e Veneto. Ultimamente sono stati chiamati anche in Francia (Chambery e St. Tropez).

sabato 19 luglio 2014

Merenda sinoira, sapori di una volta


Notizia del 01/06/2014
arianna curcio (nexta)
Quello che oggi potrebbe sembrare una sorta di apertitivo, nella tradizione gastronomica piemontese veniva definita merenda sinoira. Si tratta di un piccolo pasto (freddo) frugale ma sostanzioso fatto alcune ore prima di cena e che funge quasi da cena. "Sinoira" infatti deriva da "sin-a" che in dialetto piemontese significa proprio cena.
Diffusa, un tempo, soprattutto fra le famiglie contadine, si svolgeva intorno alle ore 17 e aveva lo scopo di dare energia dopo i faticosi lavori del primo pomeriggio e prima di affrontare quelli serali legati alla terra e alla stalla che si protraevano sino al calar del buio. La cena, verso le 21, di conseguenza, era piuttosto leggera: pane e latte o minestra di verdura o panata ed eventualmente un pezzo di formaggio.
La definizione di merenda che appare sul vocabolario-dizionario piemontese-italiano Sant'Albino del 1859: "Il mangiare fra il desinare e la cena - San Giusep a porta la marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel - L'usanza fra i contadini, concede la merenda soltanto da San Giuseppe a fine Settembre (San Michele)”.
La "marenda ant el fassolet" veniva portata nel campo in un tovagliolo e di conseguenza consumata all'aperto. Per dirla nel linguaggio moderno, era un "break" (a base di pane, formaggio e salumi) per corroborarsi, e si svolgeva solamente nel periodo di massimo lavoro (dalla primavera all'inizio dell'autunno) che coincideva anche al periodo in cui le ore di luce erano maggiori e di conseguenza le giornate lavorative più lunghe.

Più ricca e più varia era invece la "marenda sinoira" consumata in casa al termine di un lavoro importante a cui, oltre ai componenti della famiglia offerente, partecipavano tutte le persone che avevano contribuito alla conclusione del lavoro. Quando bisognava svolgere lavori particolarmente difficili o per i quali erano necessarie molte persone (costruzione di un terrazzamento, manutenzione di un canale irriguo o di una strada di campagna danneggiata da un acquazzone, trebbiatura del grano o della segale, trasporto del fieno in cascina…), infatti, le diverse famiglie si aiutavano a vicenda.
In questi casi, la "marenda" comprendeva almeno cinque o sei “portate” aventi caratteristiche leggermente diverse secondo le zone della Provincia, la stagione e le abitudini famigliari: Toma fresca, stagionata e del “lait brusc”; “cevrin” (caprini); “brus”; tomini freschi o “pasà” (essiccati, passati nell’aceto e poi messi sott’olio); tomini freschi insaporiti con aglio e pepe ed impastati con poca panna o latte oppure conditi con olio e aceto con l’eventuale aggiunta di spicchi di pomodoro; salumi e insaccati tipici (coppa di maiale, lardo, ventresca ossia pancetta, salame “della rosa”, salame di “turgia” o di “giora”, salame di patate, “salame di trippa”, mocetta, “mustardela”, “bondiola”); antipasto piemontese di verdure con aggiunta di tonno o uova sode; funghi sott’olio o sott’aceto; verdure sott’aceto; verdure crude in pinzimonio; cicoria od altra insalata con uova sode accompagnata da patate lesse o da fette di polenta arrostita avanzata a pranzo; insalata verde con pomodori o mista; insalata di fagiolini e pomodori; “miasse” con “salignun” (in Alto Canavese), “fritun ‘d patate” (senza uova) denominato “pilot“ in Alta Val Chisone e Germanasca; gofri (sempre in queste ultime due Valli).
Talvolta si concludeva con fragole o pesche al vino e per i bambini poteva comparire il pan perdu, una fetta di pane casereccio raffermo leggermente ammorbidita nel latte, passata nell’uovo sbattuto, rosolata nel burro e poi spolverizzata di zucchero.
Ma le marende sinoire, d’estate, erano anche un’usanza dei borghesi e dei nobili che possedevano ville in campagna. A tal proposito, lo scrittore canavesano Gaetano Di Giovanni autore nel 1889 del libro “Usi, credenze e pregiudizi” scriveva: “Il popolo va (a fare merenda) nelle canove, nelle osterie, nelle vie campestri adombrate da olmi e da castagni; i Signori, massime nell’està, s’invitano vicendevolmente nelle loro ville ed ivi fanno delle merende, che riescono sontuosi sissizi”.
Dopo l’ultimo dopoguerra, con il migliorare delle condizioni economiche, la marenda sinoira, nella bella stagione, divenne un’usanza diffusa fra tutta la popolazione; pertanto, da pasto necessario per rifocillarsi, si trasformò in un momento da passare allegramente in compagnia. Nelle merende hanno così fatto il loro ingresso anche i tomini al verde; le trote (o tinche o carpe o anguille) in carpione; le acciughe al verde o in salsa rossa, le zucchine in carpione; l’insalata di gallina o di bollito; le frittate di ogni genere, ma soprattutto quelle di erbe spontanee, di erbette, di zucchine con l’Erba di San Pietro, di fiori di zucca, di cipolle, di patate e con la Toma.
Talvolta potevano anche comparire: lingua in salsa; uova sode o in camicia in salsa, prosciutto in gelatina, peperoni arrostiti o scottati in acqua e aceto con sopra un’acciuga. Luogo d’incontro divennero soprattutto i chioschi situati in luoghi ombreggiati vicino ai fiumi e le trattorie di campagna con un bel pergolato. Ogni località aveva il “suo” locale specializzato per questo o per quel piatto. Le famiglie e i gruppi di amici partivano, soprattutto dalla città e dai grossi centri abitati, per andare a mangiare i “tomini del Talucco” da “Ginota” piuttosto che i “ciavrin di Coazze” da “Carlin” o le “trote dell’Orco” da “Pinot”.